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IL DIALETTO DI FRESONARA

TRATTI DISTINTIVI DEL FRESONARESE  

 

Il Piemontese fa parte della branca occidentale delle lingue neolatine; l’italiano, invece, appartiene alla branca orientale. A sua volta il Piemonte può essere suddiviso in due grandi aree dialettali: quella occidentale, molto omogenea, e quella orientale - in cui è compresa Fresonara - più frammentata.

Per lingua piemontese si intende il linguaggio emerso verso la metà del Seicento, e che affonda le sue radici, per quanto riguarda la morfologia, negli idiomi del Piemonte occidentale, il quale non ha risentito, come il Piemonte orientale, terra di confine, degli influssi del lombardo, dell’emiliano e del genovese.

La Legge di Warburg (1936 e poi 1950) stabilisce il confine tra le lingue neolatine orientali e quelle occidentali lungo una linea ideale che taglia la penisola italiana da La Spezia a Rimini.

Diversi sono i criteri considerati da Warburg per stabilire se la lingua che si parla in una determinata zona del Piemonte si può considerare Piemontese.

In provincia di Alessandria alcuni di questi criteri non sono validi. Vediamo attraverso quali di essi noi Fresonaresi possiamo stabilire con sicurezza che il nostro dialetto, nella sua singolarità, è comunque da considerarsi come una variante del Piemontese.

 In italiano le consonanti –C, -P, -T, si definiscono  consonanti occlusive, perché, quando le pronunciamo, involontariamente chiudiamo il naso. Ebbene, queste tre consonanti, in piemontese e anche in fresonarese, o cadono o si trasformano in –L, -M, -N, -R, -S, -V sonore, così chiamate perché, quando si pronunciano, le corde vocali vibrano.

Così, dal latino RIPAM, abbiamo il fresonarese riva; TRITARE= triä; APRILEM=avrì; APICULAM=ävja, AMICAM=amisa; FOCUM=feu; FORMICA=firmëja; RIDERE=rëi; LOCUM=leu; ROTAM=reuoa; CAUDAM=cheuoa; MATREM= märi; MACRUM=màir. 

E state attenti adesso! Il gruppo di occlusive latine -CT- diventa nientemeno che –cc- con un suono simile allo spagnolo.

FACTUM=fäcc (sp. hecho); LACTEM=läcc (sp. leche); NOCTEM=neucc (sp. noche). Altri esempi: SUCTUM=succ; TECTUM=tëcc; UNCTUM=òncc. 

Come in francese, invece, la –L implicata (cioè seguita da una consonante), in fresonarese viene trasformata in vocale o in -R: CALDUM=càud; ALTRUM=ätri; ALTUM=àut; SALTARE=sautä; ALTARE=autä; DULCEM=doss.

 -C e –G latine danno luogo ad un’assibilazione (vale a dire si trasformano in –S) davanti a E, I: CINERE= sënri; CENTUM=sèint; CERNERE=sern; GINGIVAN=zanzëja; LEGGERE=lés; STRINGERE=strèins.

 La negazione si esprime attraverso nèint, nèinta, e contrariamente a quanto avviene in italiano, si mette sempre dopo il verbo: non viene=on vena nèinta; non c’è che dire= on gh’è nèint da dì.

 Come il Piemontese, anche il Fresonarese mantiene la presenza, accanto ai pronomi nominali, di una serie di pronomi verbali il cui uso è obbligatorio: mëj a mangg, t’it mangi, le o mangia, nojätri a mangioma, vojätri i mangiai, lo i mangio.

 Queste poche note sintetiche di morfologia iniziano a dare un’idea dell’originalità del Piemontese nel panorama degli idiomi neolatini e delle peculiarità del fresonarese all’interno del Piemontese.

 Il Piemontese diverge dall’italiano nel sistema fonologico, morfologico, sintattico e, come vedremo, proviene da una tradizione lessicale in gran parte straniera alla lingua di Dante (il quale, tra l’altro, non ebbe certo parole d’encomio per la nostra parlata). Quando Gianrenzo Clivio afferma che chi scrive in piemontese dovrebbe non solo curare la purezza del lessico, ma soprattutto la sintassi, giacché quella piemontese è molto diversa dall’italiana, ha veramente ragione.

Proviamo a fare qualche altro esempio che troviamo anche nel fresonarese.

In italiano si dice: “eravamo nel 2000”, a Fresonara si dice: “a j ermo do 2000”; l’italiano: “non ho il tempo di venire” si trasforma in “an gh’heu nèinta tèimp da gnì”.

Noi sappiamo che il Piemonte è stato, nella sua millenaria storia, un crocevia di popoli, eserciti, culture e tradizioni diverse. Ancor più per i paesi che si trovavano al confine tra la Liguria e la Lombardia (senza parlare dell’Emilia). Facile dunque capire come mai nel nostro vocabolario troviamo, oltre alle parole di origine latina, anche vocaboli francesi, occitani, celti, liguri, germanici, longobardi, franchi…

Se ancora oggi i dialetti del Piemonte sono contraddistinti da elementi lessicali caratterizzanti, certamente il numero dei vocaboli tipicamente subalpini era nei secoli scorsi più elevato. Lo studio diacronico delle vicende lessicali è veramente importante come specchio delle correnti culturali che si sono affermate in passato nella nostra regione.

Particolarmente interessante è, per esempio, il caso del concetto di “sempre”. In tutto il Piemonte si ha quasi ovunque sempe/semper/sempre.  Allora, da dove salta fuori il fresonarese “dlònch, dlònca”?

Trovare la risposta non è stato facile, ma penso di non sbagliare nell’affermare che derivi dalla forma dialettale ligure “de longu” o “de longa”, che ancor oggi si trova ad Ormea in provincia di Cuneo.

Da notare che in alcune parti del Piemonte vive la forma “dlongh”, ma nel senso di “subito”.

E “subito”, per noi “supt”, da dove proviene? Certamente, sia in italiano, sia in piemontese, non dalla tradizione diretta, perché altrimenti la b  avrebbe dovuto dare v e non p.

L’antica voce alò = sempre presente in Lombardia, veronese, genovese e in Piemonte almeno sino al 1500, rimane nel fresonarese aleuo, come voce di incitamento.

Il gallo-romanzo travajé = lavorare coesiste a Fresonara col latino laborare. Per cui diciamo: “A vägh a laurä” e “A gh’heu da fä in traväj”. Da notare che nel piemontese classico laurä significa arare per la prima volta (la seconda: arbufé, artorné, arfranze; la terza: antërsé, parié; la quarta: curvì).

A Fresonara arfrans significava arare la seconda volta, ad agosto, per far seccare l’erba gramigna.

Tra il gallo-italico plangere e il gallo-romanzo plorare, i fresonaresi hanno scelto il primo, tradotto in pianz.

Sono andati anche persi, a Fresonara, gli esiti gallo-romanzi di appellare (chiamare) e di prehendere (prendere), al posto dei quali sono subentrati ciamä (da clamare) e piä (da piliare).

L’influsso lombardo spiega spesso la sostituzione di lessemi gallo-romanzi, ma nel caso di appellare e prehendere, a Fresonara, come in altre parti, c’è un’altra ragione. Due fenomeni non molto antichi che caratterizzano il piemontese moderno sono: 1) l’aferesi, vale a dire la tendenza alla caduta delle vocali iniziali di parola quando dopo segue una sola consonante o s + consonante; 2) la caduta della e pretonica, in altre parole la e che viene prima della sillaba accentata. Esempi del primo fenomeno sono: catä = comprare, massä = ammazzare, rivä = arrivare, smìaj = assomigliare, spiciä = aspettare, tacä = attaccare. Esempi del secondo sono: blëssa = bellezza, plä = pelare.

Ora in fresonarese l’esito di appellare in antico era apelä, che per sincope passò ad aplä e per apocope in plä, forma che venne a consuonare con plä = pelare. I Fresonaresi preferirono, allora, accogliere ciamä da clamare e cacciarono appellare. Per quanto riguarda prehendere, per metatesi il participio passato prend= preso, si trasformò in përs, che però era omofono di përs = perso. Dunque scelsero piä.

 Un altro caso interessante è quello del verbo salire, il cui significato in latino classico era saltare, ma che in questo senso si trova soltanto più in Romània. Nelle altre lingue neolatine il senso originario si è modificato in uscire, venir fuori. In italiano ha preso il valore del latino classico subire=salire. Nel Fresonarese non sono rintracciabili esiti di salire, perché noi usiamo sortì per uscire e montä per salire. Dobbiamo in ogni caso pensare, riferendoci ad antichi documenti del ‘400 e del ‘700, che il verbo salire, nel senso di uscire, sia comunque esistito in Piemontese. Ma ciò che dobbiamo domandarci è come mai sajì (uscire) sia stato in Piemontese completamente sostituito da sortire (da cui sortì). Si potrebbe pensare che ha avuto un ruolo importante l’influsso del francese sortir, ma è molto probabile che la sostituzione sia stata favorita dal fatto che alcune voci del verbo sajì consonavano con savai=sapere. Tra gli altri esempi che si potrebbero ancora citare accenniamo alla perdita di mot nel senso di molto, spiegabile forse in parte per l’omofonia con mot = mozzo, ottuso usato nei paesi limitrofi. Di fatto a Fresonara matto si traduce con móiss. Interessante sarebbe scoprire l’esatta etimologia del cärmät, le cui stuoie che si posavano sul pianale per trasportare le pannocchie di meliga, in latino si chiamavano mactrae… È scomparso anche l’antico termine prea (dal latino praeda) nel senso di preda. Ma è intuibile che ciò sia accaduto per non confonderlo con preja=pietra.

Se è facilmente comprensibile che, data una coppia di omofoni, uno di essi possa uscire dall’uso, non è altrettanto semplice spiegare perché abbia il sopravvento l’uno piuttosto che l’altro. Certamente entra in gioco l’influsso di lingue o dialetti adiacenti che possono imporre, per il loro prestigio, degli imprestiti che trovano terreno adatto per essere recepiti stabilmente o rafforzare etimi preesistenti. È il caso certamente del fresonarese ciapä, che se non è un diretto imprestito lombardo, è stato sicuramente sorretto dal lombardo ciapà nel sostituire prehendere nel senso di prendere.

Ricordiamo che il dialetto milanese è stato sostenuto in passato da grande prestigio culturale e sociale e il suo influsso si è esercitato non soltanto per contatto diretto lungo i confini dialettali, ma certamente anche a distanza, tanto da interferire anche nel Piemontese illustre di Torino.

Rimanendo a casa nostra, dal lombardo abbiamo recepito i concetti di barbarëi=mento; arborent=prezzemolo; adess=adesso. È sospetto di palese lombardismo anche il vocabolo fresonarese fìdich=fegato dell’uomo. In effetti, noi distinguiamo il fìdich dalla fritura=fegato d’animale o anche genericamente cose fritte. È curioso anche il fatto che a Fresonara si è scartato il primo lombardo pòllez=pollice per adottare il tardo lombardo didon=ditone, sempre nel senso di pollice ma anche di alluce (dideuo). Milanese è pure il termine särs=salice.

Particolarmente interessane nell’ambito del nostro discorso è il caso dei numerali da undici a sedici. Per Milano si hanno le forme vundes, dodes, trèdes, quattordes, quindes, sèdes, le quali, come vedete, concordano assai bene con i fresonaresi ëindess, dodess, trëdess, quatórdess, queindess, sëdess.

D’altra parte bisogna ricordare che la forma milanese di questi numeri domina in tutto il gallo-italico, ad eccezione della Liguria, del Piemonte occidentale e dell’Emilia orientale.  La lotta tra il tipo lombardo e quello autoctono è ancora visibile in alcuni punti di confine. Tanto per fare un esempio, a Pozzolo Formigaro coesistono, di dodici, la forma dódse (autoctona) e dódes (lombarda).

È forse al lombardo dunque che il Piemonte e quindi Fresonara devono la forma attuale dei numeri da undici a sedici, nei quali l’occlusiva sonora, normalmente scomparsa nelle forme piemontesi, è di nuovo presente. Inutile dire che alla diffusione della nuova serie di numerali avrà indubbiamente contribuito la maggior consonanza con la lingua letteraria.

La conoscenza che abbiamo oggi del Piemontese antico e della cronologia dei cambi fonologici è ancora molto imperfetta. È certo in ogni caso che ad un dato punto il –que di quel, quela, quej… si trasformò, in molte parti del Piemonte, nel –co di col, cola, cost, costa… Ma non a Fresonara, dove ancora oggi si dice quël fanciót, quëla strä, ist l’è pì bel, ista l’è mej.

 Nel 1560 e nel 1577 due editti emessi da Emanuele Filiberto, duca di Savoia, detto Testa di Ferro, impongono l’uso del volgare nelle corti di giustizia dove ancora prevaleva quello del latino. In Piemonte il latino si mantenne molto a lungo come lingua scritta unica o prevalente, ma i testi tardolatini della regione mostrano sovente l’influsso lessicale del piemontese. I Sermoni Subalpini, una raccolta di 22 prediche, attestano l’impiego del volgare nella sfera della religione, come anche in un certo numero di laudi. Di preghiere in piemontese restano ancora oggi tracce chiarissime e sembra certo che in passato ne sia esistito un numero notevole. Nel nostro fresonarese troviamo ancora molti modi di dire derivati dalle preghiere: sicotero (ripetere sempre le stesse cose) = sicut erat; Deo grässia = grazie a Dio; diessilla (avere un viso pallido) = dies irae; misareri = miserere; repulischi (sgombrare) = quae me repulisti; santificetur (brontolone) = sia santificato; matardeo (cosa grossolana) = mater Dei; goga e migoga (far baldoria) = Gog e Magog.

Dal medioevo alla fine del XVI secolo troviamo nei documenti scritti in piemontese termini che con le dovute variazioni entreranno anche nel nostro dialetto. Possiamo citare caczulos, da cui cassù (mestolo); ceberos = sëbri (mastello); lotono = oteuo (ottone); arancare = rancä (sradicare); ayra = èra (aia); baronus = bora (catasta di covoni); bealeria = biä (bedale, roggia); blava = biäva (biada, avena); calzina = causséina (calce); crosus = creusia (strada incassata); disligare = sliä (slegare); laborare = laorä (lavorare); liamum = aliäm (letame); lobia = lóbia (tesa del cappello); menssio = amsoria (piccola falce messoria con una sola impugnatura); nisatura = niss (ammaccatura della frutta); peisa = pàisa (peso pubblico); rapa = räp (grappolo); ritana = ariarët (leggero avvallamento per raccogliere le acque piovane dalle strade); toponus = stopeuo (tappo, turacciolo).

Nel Settecento a Torino e probabilmente nelle città più importanti del Piemonte esistevano i dialetti sociali. Vale a dire che le varie classi sociali si distinguevano anche nel parlare in tre modi diversi lo stesso dialetto: il Cortigiano, ossia quello usato nelle Corti; il Volgare, ossia quello usato comunemente dai cittadini; il Plebeo, ossia quello usato dal popolo minuto. Se pensiamo al numero dei Fresonaresi che si sono trasferiti in città per un certo tempo in casa dei “signori” per svolgere le mansioni più umili, ma che potevano dare comunque un guadagno sicuro, riusciamo a comprendere, come ritornati al paese, rimasti influenzati dal dialetto cittadino, abbiano poi pronunciato in modo diverso dai Fresonaresi le stesse parole. Pronunce che sono rimaste in pochi casi anche oggi (chigiä – chigé (cucchiaio); barsä – brisä (bruciare); sminä – simnä (seminare); sbreusli – sbris (brice, fieno molto secco).

Che in Piemonte non solo si parlassero le varianti del piemontese, ma che anche l’uso epistolare di questa lingua fosse diffuso specie tra i nobili sino a tutto l’Ottocento lo dimostrano anche le lettere di Carlo Felice e poi di Maria Clotilde.

Tra i caratteri fonologici del piemontese rustico sono a Fresonara la tendenza ad eliminare dal nesso iniziale gu (il w germanico) la g: guaciä diventa uaciä (osservare); guadagnä = uadagnä (guadagnare); guant = uant (guanto); guèra = uèra (guerra); guarì = uarì (guarire). Nella parlata urbana colta nel Settecento esisteva la tendenza, invece, a mantenere la gu.

Sembrerà strano, ma l’uso del passato remoto sparisce dal vocabolario delle persone colte prima che dalla bocca del popolo minuto. Perché anche il passato remoto ha la sua storia. Questo tempo è ampiamente attestato in piemontese antico e non presenta alcun carattere di eccezionalità nella sua formazione. Nei dialetti piemontesi si venne però sviluppando, dal ‘400, un nuovo tipo di passato remoto, attestato nelle opere in antico astigiano di G. G. Alione (1461 – 1521 ca.). Le ultime attestazioni si incontrano nel primo ‘800, dopo di che questo tempo uscì completamente dall’uso e fu sostituito dal passato prossimo.  Il fatto ha influito anche nel parlare in italiano. Difficilmente noi Fresonaresi, come del resto tutti i Piemontesi, usiamo il passato prossimo anche quando ci esprimiamo nella lingua di Dante.

 Nella nostra parlata è ancora in uso l’antica costruzione negativa con la particella në che noi abbiamo ridotto alla sola n, appoggiandola alla vocale della parola che precede o segue: an mangg nèinta; a n’esägera mëja. Questa particella, in uso anche a Torino nel Seicento, era già in crisi nel secolo seguente e fin dai primi dell’Ottocento nel Piemonte occidentale era scomparsa.

Al suo posto è subentrato nen, che risponde etimologicamente all’italiano niente, del quale conservò anche il senso fino al settecento e oltre. Quando a Fresonara arrivò nen, noi, un po' avari come il solito, non buttammo via në, ma cominciammo ad usarli entrambi per una doppia negazione: an ca on gh’è nèint=in casa non c’è; sëinsa ogiäj a n’i-gh vëgh nèinta=senza occhiali non vedo. 

Più tardi, nel senso di niente, si è accolto, a Fresonara, l’italianismo gnénte: an bav gnente; an veuj gnente. Rimangono solo, all’antica, pochissimi casi, come: on fa nèint.

Se la doppia negazione ci avvicina al francese (on veu nèinta=il ne veut pas), nel frattempo ci allontana dall’italiano, poiché, almeno sino all’Ottocento, il Fresonarese era in grado di evolversi in modo autonomo senza subire l’influsso della lingua ufficiale. Ma da quel secolo in avanti, gli italianismi hanno avuto un’influenza sempre più elevata nel nostro lessico. Da notare che mentre a Torino dlòngh equivaleva all’italiano subito, da noi dlònch significa sempre. Poi, però, per dire dunque abbiamo preferito scegliere il cittadino donca piuttosto che il rustico doncre.

Senza addentrarci in una terminologia complicata riguardante lenizioni, assibilazioni e caduta delle protoniche… possiamo affermare che gli sviluppi subiti dal latino in Piemonte comprendono mutamenti fonetici di tipo romanzo occidentale, nessuno dei quali si riscontra in italiano. Per altro, nel corso della sua storia il piemontese ha subito costantemente l’influsso di varie lingue, accettando numerosi imprestiti lessicali, alcuni dei quali contraddicono gli sviluppi derivati dal romanzo. In tempi più recenti è soprattutto l’influsso dell’italiano letterario che ha determinato e determina alterazioni del sistema fonologico piemontese giungendo, talvolta, ad oscurare quelli che ne costituivano gli sviluppi caratteristici.

Nel Fresonarese abbiamo dunque casi in cui la palatale c rimane tale e quale (facile=fäcil) e casi in cui, seguendo il criterio naturale, la c si trasforma in sibilante (cercare=sircä; cestino=sistëi). Al contrario della tendenza ad italianizzare vocaboli aggiungendo vocali atone che i nostri antenati non pronunciavano, giustamente a Fresonara si dice ancora dlicà=delicato; dvantä=diventare; avrità=verità.

Certamente possiamo concludere affermando che l’influsso dell’italiano ha cominciato ad esplicarsi con crescente efficacia dopo l’abbandono del francese come lingua di cultura in Piemonte (cioè nella seconda metà dell’Ottocento) e ciò in quanto il francese condivide con il piemontese i mutamenti fonetici sopra elencati, che invece sono estranei all’italiano.

Ma se l’italiano influisce sul Fresonarese, è pur evidente che il Fresonarese influisce sulla varietà dell’italiano che noi parliamo in rapporto alla varietà centrale generalmente considerata come forma standard.

In effetti, la nostra pronuncia dell’italiano, che da alcuni decenni determina sempre più velocemente il regresso del Fresonarese, mostra delle peculiarità fonetiche dovute in buona parte al Fresonarese stesso. È sulla bocca di tutti la pronuncia di parole come perchè, affinchè, trentatrè… invece di perché, affinché, trentatré; propio invece di proprio; gnente invece di niente...

Ancora qualche anno fa era possibile sentire persone anziane pronunciare stassione invece di stazione; siemo invece di scemo.

E a dire il vero non ci poniamo di certo il problema, quando parliamo in italiano, del doppio suono della consonate z, addirittura assente nel vocabolario fresonarese. Mentre comunque il piemontese ci fa comprendere, attraverso apposite regole di scrittura se la s si deve pronunciare sonora (om piäsa=mi piace) oppure sorda (an piässa=in piazza), l’italiano di ciò non si pone il problema, perciò ognuno pronuncia la s come vuole…

 Diamo ora un’occhiata alle particelle affermative.

In Piemonte ci sono modi diversi per dire sì. Secondo la domanda, anche a Fresonara capita sovente che l’interlocutore dica sì rispondendo: sëj; sëj sëj; è; ò za!

Vediamo: - Tó päri l’èli an ca? – Sëj! – E ’t content do rigäl o nò? – Sëj sëj! – Ancheuj o fa caud, eh? – È! L’el vàira che t’ej ir pì fórt? – Ó za!

È comunque appurato che oggi l’affermazione più diffusa è quella di forma italiana, cioè sëj! Ma gli esempi ci dimostrano come il Piemonte originariamente non facesse parte dell’area del sì, o comunque costituisse una zona di transizione nella quale alla particella affermativa di tipo italiano se ne affiancavano altre prettamente locali. Da notare che nella particella affermativa è si deve riconoscere un esito di est (3ª pers. sing. pres. ind. di essere, che in fresonarese è omofono dell’italiano è).

E veniamo, per concludere, al nome di alcuni animali selvatici, soprattutto mustelidi, i cui esiti dialettali ci portano ad interessanti osservazioni.

Partiamo dalla puzzola. Ebbene, sembrerà incredibile, ma per tutto il Piemonte non si registra, sui migliori atlanti, neppure una sola denominazione di questo animale. La nostra liciora risulta sconosciuta sui versanti delle Alpi, sull’intero territorio pedemontano, in gran parte della Lombardia e delle Venezie. Più conosciuti risultano la donnola, che noi chiamiamo bènora e il tasso, per noi, come nel Monferrato, nel tipo italiano di täss. Meno nota la faina, che per noi diventa, al maschile, ir fuej. Comune a tutta l’Italia settentrionale è il nome che nel nostro paese diamo alla lontra = ludria. A proposito della puzzola, a Fresonara seguiamo la parola spissä nel senso di puzzare, mentre nel Piemontese occidentale prevale la forma basata sull’esito di flagrare.

 Permettetemi ora di chiudere con i versi del poeta piemontese Edoardo Ignazio Calvo, il quale più di duecento anni fa così si esprimeva nella sua parlata: 

ognidun ant sò vilagi

dev avej la gelosìa

dë spieghesse ‘nt sò linguagi. 

(ognuno nel suo villaggio / deve aver l’orgoglio / di esprimersi nel suo linguaggio) 

Si ringrazia GIANRENZO P. CLIVIO, autore del libro Storia linguistica e dialettologia piemontese, Ed. Centro Studi Piemontesi Ca dë Studi Piemontèis, Torino, dal quale sono stati tratti numerosi spunti. 

 Ma è doveroso anche citare:

Piemontese lingua d’Europa, A.V., Ed. Nòste Rèis

Mille anni di letteratura piemontese, Testi di Dario Pasero, Ed. Regione Piemonte

Grammatica della lingua piemontese, Michela Grosso, Ed. Nòste Rèis – Libreria Piemontese

Dissiunŏri d’ döumila paroli d’ Farsnèra, Giovanni Bisio, Ed. in proprio.

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