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I RACCONTI DI DOMENICO BISIO

RACCONTI

 

IL RACCONTO È INSERITO NEL VOLUME I DELL'OPERA "LEONARDA BOIDI - Una passionista alessandrina" di Padre Max.

INSERITO NELL'ANTOLOGIA "LA PAROLA POSSIBILE - Voci della Narrativa in provincia di Alessandria" Ed. Puntoacapo.

 IL 1° OTTOBRE COMINCIAVA LA SCUOLA

 Era una mattinata di quelle che comunemente i contadini definivano da giorno dei santi. La foschia, accentuata dalle piogge dei giorni precedenti, prendendo la sembianza della nebbia bagnava l'erba dei prati. A guardare la punta umida degli zoccolotti si capiva benissimo che nessuno aveva seguito la strada maestra, ma tutti avevano tagliato per il viottolo sterrato, che passando dietro la casa dell'ortolano, rendeva più corto il tragitto dalla Piazza Vecchia alla scuola. Quelli di quinta, che più che scolari sembravano i padri di quelli di prima, avevano acquistato l'ancestrale diritto di scalare l'antico cedro al centro del cortile e già da mezz'ora erano a gara a chi saliva più in alto. Quelli di quarta, col naso all'insù, fremevano, pensando che l'anno prossimo, alla stessa ora, per il naturale passaggio d'anzianità, sarebbe toccato a loro il divertimento di sputare di sotto agli sprovveduti che si avvicinavano al maestoso tronco.

Nessuno era stato accompagnato dai genitori, perché essere accompagnati dai genitori significava essere poi presi nel mezzo per interi giorni. D'altra parte nessun genitore avrebbe avuto il tempo di farlo. L'autunno sembrava quell'anno voler anticipare il freddo e la meliga non aveva le gambe. Perché chi ha le gambe può camminare da solo, la meliga, invece, non viene a casa da sola... I più piccoli, che per la prima volta mettevano il naso fuori dal perimetro dell'aia, erano stati affidati dunque ai fratelli maggiori, i quali, appena incontrati quelli della banda del morione, si erano dimenticati di loro e si erano dati a rincorse tra scarti e zig-zag, giocando a ce l'hai. Così i remigini erano raccolti via via dalle bambine, che, più giudiziose dei maschi, erano pratiche nell'accudire i bambini. Perché le bambine giocavano a far la mamma con bambolotti in carne ed ossa, che piangevano davvero, avevano freddo davvero, avevano fame davvero. Ma far la mamma sarebbe stato il loro mestiere per tutta la vita e dovevano abituarsi presto ad entrare nella parte.

L'ultimo ad arrivare fu Berto, sparato sulla bicicletta del signore. Sul manubrio, di schiena, le mani appoggiate alle sue spalle già da uomo, col colletto della giacchetta tirato su e il berrettino con il paraorecchi giù, c'era Giacomino, il suo fratellastro, come dicevano in paese. Ma lui a quel sacchettino di ossa aveva voluto subito bene. Non era in gran salute, Giacomino, ma chiamare il dottore sarebbe stata una vergogna per la famiglia. Tutti avrebbero saputo che soffriva di polmoni, e da grande nessuna l'avrebbe sposato. Per questo Berto alla cascina lavorava per due, per lui e per il fratellino: perché alla cascina del signore non si poteva stare nel letto.  E così Giacomino, anche nelle fredde giornate d'autunno, doveva accudire le galline, le oche, le faraone e i due maiali, che essendo già ottobre, avevano soltanto più cinque mesi di ingrasso. Ma Berto, di soppiatto, trasportava lui il pesante boiolo del pastone ed era lesto a reggere di peso Giacomino e a nasconderlo nella stalla perché nessuno lo sentisse, quando la tosse diventava un'asfissiante litania.

Il crocchio delle bambine si spostò per farlo passare e qualcuna lo guardò con il sospetto che un giorno sarebbe potuto divenire suo marito. Si parlava presto di matrimoni, nelle famiglie, perché per ogni nascita era già pronto il futuro consorte. I figli avrebbero portato a casa la dote della moglie, e le bambine, una vera maledizione, era bene che se ne andassero di casa presto. Una bocca in meno da sfamare.

Soltanto Pina non lo guardò nemmeno. Se ne stava in disparte, lei, con un piede quasi nel fosso, guardando dal basso in su, con quel faccino sempre triste, le altre che indossavano il grembiulino bianco. Non aveva il grembiule la piccola Pina. Non aveva nemmeno una mamma che glielo potesse cucire. Il dottore l'aveva detto: sarà un parto difficile, ma il nonno non si era nemmeno voltato a salutarlo. Sempre esagerati i dottori! Così la mamma se n'era andata un minuto dopo che era venuta al mondo lei, considerata da tutti la colpa della disgrazia.

 La grossa mano che afferrò la corta e nodosa corda della campanella a fianco del portoncino d'entrata, facendola squillare per un bel po', era quella del Carleuo dir mornä, dipendente comunale. Era stato assunto come guardia campale, il Carlo Ferreri, ma in un paesino come quello, si sapeva benissimo come sarebbe andata a finire. Così, con orgoglio, poteva vantarsi all'osteria di essere anche bidello, stradino, porta bandiera alla processione e beccamorto. La mano era naturalmente proporzionata al corpo: una montagna di muscoli pelosi che ogni tanto gli servivano per acciuffare per la collottola quelli che scivolavano in discesa libera dalla ringhiera delle scale e reggendoli di peso con la sinistra, con la destra non disdegnava di affibbiare qualche buon scappellotto al malcapitato. Ma nessuno andava a lagnarsi a casa, ben sapendo che ai già presi, si sarebbero aggiunti gli schiaffi del padre. Perché Carleuo era un'autorità, e le autorità, in quanto tali, avevano sempre ragione. Come le tre maestre, i due maestri, e il parroco, Don Felice, che quel primo ottobre di inizio anno scolastico, avrebbe detto Messa, come nei 34 anni che era lì, per ricordare al Signore che quei bambini e quelle bambine avevano bisogno, anche per quella volta, della sua misericordia di Padre buono, altrimenti pochi si sarebbero salvati dalla bocciatura...

E poi il primo giorno di scuola coincideva con il primo giorno di catechismo, e ricordare a quelle teste vuote che oltre le galline c'era anche Gesù, la prima comunione e il confessarsi almeno una volta all'anno, era un'occasione da non perdere. Poveri bambini! I genitori con la chiesa erano persin generosi, le nonne non mancavano una Messa prima, ognuno contribuiva per ciò che poteva, e poi non c'era famiglia dalla quale non fosse uscito qualcuno che era poi ritornato dopo aver provato a studiare da prete, ma... il catechismo era una delusione. Ce n'aveva da ripetere chi è Dio... Oggi lo sapevano e il giorno dopo si ricominciava da capo.

La campanella non aveva dato l'ultimo squillo che quelli sul cedro erano già tutti a terra. Cominciare l'anno sotto le mani di Carleuo non era di buon auspicio... Tra spintoni, sgambetti, risolini ricambiati dalle linguacce delle bambine, in pochi secondi tutti erano davanti alla porta.

- Stai fermi, che adess iv ciämo - gridò in dialetto Carleuo - e poliv ij socrogni, pruma d'enträ.

Eseguirono soltanto i più piccoli e le bambine. Per i più grandi, sporcare il pavimento della scuola era da sempre motivo di orgoglio e di vanto sotto il porticato dell'oratorio, dove con i tappi e le biglie di terracotta si bisticciava a canale.

Fra pochi istanti il maestro Grosso si sarebbe affacciato al portoncino. Registri alla mano, in qualità di fiduciario, avrebbe fatto l'appello, con la sua voce da baritono che nel coro paesano si distingueva subito. Come del resto si distingueva subito la sua severità nei confronti di chi non rigava dritto. Quella sarebbe stata, per molti di prima, la prima volta che avrebbero sentito parlare in italiano.

L'altro maestro, quello di quarta, piccolo di statura, gli occhiali sul naso e le scarpe che scricchiolavano sul pavimento, si chiamava Devecchi. Non era del paese, come la Borghetti e la De Carolis, due delle tre maestre, che comunque, per legge, erano obbligate alla residenza nel borgo per tutto l'anno scolastico. Avevano avuto dal Comune due stanze a testa, indipendenti, arredate sopra l'ufficio postale. Il maestro Devecchi, invece, abitava da un parente nell'ultima casa prima dell'incrocio con la provinciale. La maestra Luigina, era nata in paese. Faceva sempre la prima, lei, perché le famiglie le conosceva tutte e tutti conoscevano lei, che non disdegnava, nei giorni di bel tempo, di andare a trovare i suoi alunni nei lavori dei campi. Così spettava a lei, tutti gli anni, raccogliere sui banchi di scuola, come in una stia, quel gruppetto di teste rasate come pulcini che il 1° di ottobre rimanevano lì, sulla soglia, a guardare su quell'enorme lavagna quegli scarabocchi bianchi che soltanto molti mesi dopo avrebbero avuto il suono delle vocali.

- Classe prima! - gridò il maestro Grosso. - Rispondete presente all'appello ed entrate in aula. E voi, salamoni di quarta e quinta, state zitti, fatevi da parte e lasciate passare i più piccoli!

Artini Giuseppe!... Artini Giuseppe! C'è? - gridò il maestro allungando il collo - Rispondi!.. Artini Giuseppe! - gridò più forte.

O ciäma tëj, Pino, t'ej tëj Artini Giuseppe - gli sussurra la sorella Luisa toccandolo col gomito. - Rispònda, digh: presente! Sbróiti!

- Pri... prisente! - tentenna con una sottile vocina Pino, che solo ora, da quando era nato, aveva scoperto di chiamarsi Artini Giuseppe.

- Avanti, entra, la maestra ti sta aspettando. Andiamo avanti: Berretti Giacomo... Campo Matteo...

 Da sette anni Zante Teresio chiudeva l'elenco, e anche quella volta fu l'ultimo ad entrare nel corridoio, seguito dal maestro, mentre Carleuo chiudeva con due colpi secchi i battenti del portoncino. Era un veterano, Zante Teresio, di quella scuola. Pluriripetente, come Pietro, detto sicót, eppure lo sguardo fiero, perché pur essendo un cascinale, lui il San Martino non lo aveva mai fatto. Il padrone era molto vecchio ed aveva bisogno di braccia forti come le sue e di quella capacità del babbo di prevedere molti mesi prima come sarebbe andato il raccolto. E poi, il padrone lo considerava quasi un nipote e lui si era affezionato all'anziano quasi zio e marinava la scuola per andare in città, a piedi, a comprargli le medicine. Ma il maestro non faceva sconti a nessuno e quelle assenze a fine anno si pagavano care...

Anche la porta di terza si era chiusa e nel deserto corridoio ora vagava soltanto il fumo del mezzo toscano che Carleuo non poteva fare a meno di accendere quando era soddisfatto del suo lavoro.

Prima di versare l'inchiostro nei calamai aveva già dato un'occhiata alla grondaia e sistemato i due coppi che il vento della grandinata d'agosto aveva fatto scivolare di posto. Appena il maestro Grosso gli avrebbe dato il permesso, avrebbe indossato il cappello con la visiera e lo stemma del Comune e, in bicicletta, sarebbe sceso, sguardo fiero e schiena ritta, tra le vigne in qualità di guardia campestre. Ma stamattina in cuor suo presagiva una ronda di assoluto riposo. Tutti i ladruncoli più scaltri erano a scuola, dunque non ci sarebbe stata la solita rincorsa a far svuotare tasche piene di uova di gazza e mani che tenevano stretto il grappolo d'agnenga  strappato dalla vigna del Gusto.

 La rigida disciplina imponeva il massimo silenzio nelle aule. Dalle cartelle di pezza o di cuoio scolorito uscirono penne che da tre mesi erano rimaste lì in attesa di ritornare al motivo per cui erano state fatte. Le orecchie del quaderno facevano concorrenza a quelle del ciuco. Il libro, dove il fiore secco del maggio passato aveva l'incarico di segnare la pagina, era rivestito di carta da zucchero riportante in bella mostra la sempiterna macchia di olio d'oliva. Era tempo che il pennino ricominciasse a versare il giusto dosaggio di inchiostro sulle bianche pagine. 

Solo i bambini di prima tenevano in mano il lapis che, ogni due carasse, aveva la punta spezzata, ma almeno non macchiava...

- A... E... I... - ripetevano, senza capire, i bambini, mentre la maestra Luigina cercava con fatica di dimostrare, con la bacchetta, che gli strani segni di gesso bianco alla lavagna avevano un suono.

La classe terza era sistemata, quell'anno, nell'aula subito dopo quella di prima, per dare la possibilità a Sergio lo zoppetto di non fare le scale per salire al piano superiore. Aveva un piede solo Sergio, l'altro l'aveva lasciato sotto lo zoccolo di Bagi, l'enorme cavallo da tiro dello zio, il quale quando era nato il nipote, non avendo figli, aveva voluto a tutti costi che rinnovasse il suo nome. Toccò a Carla leggere a voce alta sul libro di lettura: Amate i poveri disgraziati e soccorreteli. Chi soccorre i disgraziati, compie una buona azione. Le buone azioni ci fanno amare da tutti... Leggeva bene, Carla, rispettando la punteggiatura e dando tono alle parole. Era nata fortunata. Il nonno aveva la rivendita di tabacchi, l'unica in paese. Aveva fatto i soldi, con i quali aveva fatto studiare la mamma, che era arrivata ad essere quasi maestra. Così a casa ella le leggeva tutti i giorni un raccontino, poi Carla provava lei a leggere come aveva fatto la mamma.

Un colpo di mano sulla cattedra fece scuotere la testa a Carleuo. Sicuramente era la maestra Borghetti, che richiamava all'attenzione Giannino. Povero Giannino! Per lui, anche se era già in terza, le lettere dell'alfabeto erano sempre come i geroglifici.  Stava attento, con quegli occhioni neri che quando la maestra lo guardava gli uscivano dalle orbite, ma conciliare scuola e pascolo era dura. Arrivava a casa che era quasi buio. L'ultimo cucchiaio di latte coincideva con il primo sbadiglio, a cui seguiva la testa reclinata sulla tavola. Allora la nonna gli toglieva le scarpe e così com'era vestito lo infilava nello stesso letto dove poco dopo sarebbe stato seguito dai suoi quattro fratellini.

Carleuo, visto che il tempo del sigaro acceso era passato e il maestro Grosso non scendeva, decise di salire lui le scale per chiedere il permesso ad uscire per le vigne.

Passò davanti alla porta della classe seconda. La porta era aperta e la maestra De Carolis, in piedi vicino alla cattedra, avvolta nel suo grembiule nero col collettino bianco inamidato, ripeteva con i bambini il Padre Nostro. Si adeguò, Carleu, al ritmo della preghiera, ripetendo sotto voce le ultime parole a tempo dei bambini. Si fece anche lui il segno della croce proprio mentre la maestra correggeva Matilde. La bambina era mancina e nonostante le continue osservazioni, le veniva meglio segnarsi con la sinistra. Almeno quello, pensava la piccola, visto che Gesù era venuto al mondo anche per i mancini. Già aveva dovuto subire la tortura di imparare a scrivere con la destra, con quelle sue piccole dita che faticavano a tenere stretta e dritta la penna e a dividere in sillabe con bella calligrafia. A volte non riusciva nemmeno a centrare il calamaio...

Lo scricchiolìo delle scarpe del maestro Devecchi dimostrava, anche se la porta era chiusa, che il maestro di quarta era in viaggio - come dicevano gli scolari - tra i banchi. Era un finto cattivo, il maestro Devecchi, ma dovendo farlo per convenzione, passeggiava continuamente tra le file. Si fermava di fianco allo scolaro. Allungava il collo per leggere ciò che stava scrivendo, poi alzava la mano destra. A quel punto il collo dell'alunno si irrigidiva. I casi erano due: o arrivava sulla nuca un buffetto dato con le tre dita più lunghe a segno che tutto andava bene... o piombava sul coppetto  un giro di gnocco che rivoltava i capelli sino a strapparne qualcuno. Seguiva l'immancabile strappo della pagina e il perentorio quanto sintetico ordine: - Rifare!

Ma quello era il primo giorno di scuola e la sua voce tranquilla chiamava al turno di lettura gli alunni su un racconto riguardante la famiglia reale. Il re e la regina sono buoni - dicevano le parole - quella del re è una famiglia esemplare.

Era, quella di quinta, l'ultima aula in fondo. Il maestro Grosso stava ricordando, a quella banda di masnadieri, il cui silenzio era sempre presagio che qualcosa bolliva in pentola, che fare la quinta sarebbe stata molto dura e quindi ci si doveva mettere di buona lena sin dall'inizio. Era il solito discorsetto di tutti gli anni e Zante, che ne conosceva a memoria i capitoli, anticipava nell'orecchio di Andrea quanto sarebbe uscito un secondo dopo dalle labbra dell'insegnante.

Con la nocca delle dita Carleuo bussò piano alla porta. Alla voce: - Avanti! - l'uomo, grattandosi la testa china, aprì la porta chiedendo permesso. Il maestro Grosso, conoscendo i motivi di quella presenza, anticipò la domanda, dando il suo consenso a che Carleuo svolgesse il suo compito di guardia campestre, raccomandandosi però che fosse di ritorno per le undici meno un quarto, ora stabilita per avviarsi in chiesa alla messa d'inizio anno. Era meglio che, appena usciti insegnanti ed alunni, al portoncino della scuola fosse subito messo il lucchetto. Carleuo richiuse la porta. Alzò lo sguardo alla macchia scura d'umidità nell'angolo alto del corridoio mentre gli alunni di quinta ora  ripassavano tutti insieme la tabellina del nove: nove per uno: nove; nove per due: diciotto; nove per tre... ventisette, pensò Carleuo. Ventisette, come gli anni che erano passati da quando si era sposato con la Mariuccia, che lo avrebbe aspettato a casa anche quel giorno a mezzogiorno in punto, col suo sorriso dietro al fumo di un buon piatto di minestrone. Se l'era scelta lui, la Mariuccia, non gliela aveva imposta nessuno. Sul ballo a palchetto, alla festa della Madonna Nuova, era bastato uno sguardo. Alla fine di quel valzer erano già come sposati. Perché loro si erano prima sposati e poi fidanzati...

Le scarpe del maestro Devecchi non scricchiolavano più. Seduto alla cattedra ascoltava Francesca, che stava ripetendo con le sue parole il raccontino in cui si narrava che... i bambini giocano alla guerra e le bambine giocano alla Croce Rossa che porta aiuto a tutti...

Appoggiandosi al corrimano, a Carleuo ritornò in mente quando era lui, che di nascosto, scivolava a cavalcioni lungo la ringhiera. E quando cadde e sbattè la nuca sullo scalino. Ai suoi tempi era la Carmelina del Bagio la bidella, e certo, per un ragazzone come lui, era facile scappare...

Dalla tromba delle scale risuonava la voce della maestra di seconda che, quasi cantando, col dito a far da monito, interpretava la poesiola: No, non siate cattivelli, ubbidite o fanciullini, e non fate più i monelli e non siate birichini. C'è una cosa che consola: l'essere buoni e andare a scuola.

 Povero Giacomino. Non ne poteva più. La maestra Borghetti gli aveva dato il permesso di uscire. Carleuo lo vide voltando l'angolo del corridoio in basso mentre con una mano sporca di sangue, davanti alla bocca, cercava di nascondere a se stesso quella tosse che lo voleva soffocare e l'altra mano stretta alla patta dei pantaloni a tamponare lo stimolo che quei colpi gli producevano. Non lo poteva sentire, Berto, e non poteva aiutarlo battendogli sulla schiena.

- Vieni, Giacomino - gli sussurrò Carleu - vieni. Lo portò sulla soglia dello sgabuzzino, dove, aperta la porta, il bidello prese un mestolo d'acqua dal secchiello. Gliela versò sulla mano sporca di sangue. - Asciugati qui - disse poi porgendogli uno straccetto macchiato di inchiostro - e bevi, Giacomino, bevi, che ti fa bene - aggiunse intingendo nuovamente il mestolo nel secchiello.

In aula, intanto, la maestra, con tono severo, stava raccomandando alle bambine che non si ride dietro le persone povere. Poi, rivolgendosi a Pina, accarezzandole la treccina sfatta, le sussurrò:

- Non bisogna vergognarsi di essere poveri. Tutti però devono lavorare con onestà, per cui anche tu, da domani, dovrai venire a scuola con il tuo quaderno.

 Era la voce all'unisono di tutta la classe prima quella che contò i passi che servivano a Carleuo per arrivare al portoncino della scuola. Uno... due... tre... cinque... otto... Otto passi dal ripostiglio, dove, nascosto nell'armadio a muro che lo sapeva solo lui, teneva il cappello da guardia campestre, sino alla fine del corridoio. Non ci aveva mai fatto caso. Chiuse la porta piano, calcò la visiera sugli occhi, inforcò la bicicletta e in un attimo era dietro la curva della Paroda.

Le campane stavano informando il paese che da lì a mezzora ci sarebbe stata la messa. Il sacrista era a vendemmiare e Don Felice si preparò da solo le ampolline. Poi tirò fuori dal pesante tiretto l'amitto e il camice. I candelabri, no. I candelabri li avrebbe accesi solo alcuni istanti prima della messa. Consumare cera per niente era peccato.

Alle undici meno un quarto precisissime il portoncino della scuola si aprì. Davanti i più piccoli, dietro i giganti di quinta e i ripetenti. Ai lati gli insegnanti. Pina dava la mano a Marisa. Il pomeriggio si sarebbe incontrata in casa della nuova amichetta. La mamma di Marisa era sarta e in qualche modo avrebbe trovato avanzi di stoffa bianca...

Giacomino non tossiva più. Quel goccio d'acqua aveva avuto l'effetto di una medicina. Lo dicevano tutti in paese che l'acqua del pozzo di Mosè era miracolosa. Era bevendo un mestolo al giorno di quell'acqua che Carleuo nella sua vita non aveva mai avuto un solo mal di testa. Zante si accompagnava a Pietro. In due facevano ventisei anni d'età e quattordici anni di elementari.  In fondo in fondo, staccato da tutti, Berto chiudeva la fila. Tra le mani il manubrio della bicicletta del signore. Non poteva abbandonare la bicicletta del signore. Se gliela avessero rubata non se lo sarebbe mai perdonato. Avrebbe perso la sua fiducia e il suo fratellastro, come dicevano in paese, quel sacchettino di ossa che si stavano consumando come un ghiacciolo al sole, al quale aveva voluto bene sin da quando la sua nuova mamma lo portò in casa, non ce l'avrebbe fatta a percorrere tutti i giorni i due chilometri all'andata e altrettanti al ritorno per compiere il suo dovere di scolaro sino al momento in cui nemmeno più l'acqua di Mosè avrebbe fatto il miracolo.

 La foschia si era dissolta. Il sole, tiepido, scaldava le mani e faceva promesse di giochi all'aperto per il pomeriggio. Oggi niente compiti. Così, dopo il catechismo, si poteva avere il tempo per giocare ancora alla mamma con i bambolotti di carne, con il boiolo del maiale e con le mucche, sulla collina, dove il cielo era sempre pronto a sorridere ad una capriola di Giannino e il vento, complice, regalava alla vallata, mantenendone il segreto, i suoi fischi col guscio della ghianda tra indice e medio.

- Da domani si farà sul serio - aveva detto il maestro Grosso ai suoi alunni prima di aprire la porta della classe per quell'uscita anticipata del primo giorno di scuola.

- Se da domani si farà sul serio, sarà meglio approfittarne subito oggi - pensarono in tacito accordo i quattro della banda del morione. Certamente, far scivolare tra i piedi di Don Felice, mentre diceva messa, il ranocchio che Sandrone stava accarezzando nella tasca dei pantaloni, sarebbe stato un bel divertimento.

 Carleuo, ritornato alle mansioni di bidello pur ancora col cappello da guardia campestre in testa, diede un'occhiata nei corridoi. Voleva ben dire: qualcuno aveva dimenticato, come al solito, il berrettino all'attaccapanni. Era meglio posarlo nell'armadio a muro. Domani avrebbe cercato lui il proprietario. Bevve un mestolo d'acqua. Contò otto passi e si trovò al portoncino. Sorrise a se stesso. Due giri di chiave, poi con il lucchetto serrò la catenella. Infilò le mani in tasca e guardò dalla parte del campanile. C'era ancora il tempo per dare due boccate al sigaro, prima di ritornare, a mezzogiorno in punto, al sorriso della sua Mariuccia.

 IL RACCONTO È INSERITO NEL VOLUME I DELL'OPERA "LEONARDA BOIDI - Una passionista alessandrina" di Padre Max.

  

QUATTORDICI, QUINDICI E DICIASSETTE

 

LUGLIO: ESAMI!

 

 Fu un inverno particolarmente freddo quello di quell'anno scolastico. Le scorte della legna sotto i portichetti si erano esaurite già a metà febbraio, ma il tempo non ne voleva sapere di mettersi al bello neppure a marzo inoltrato. Le nevicate furono copiose e misero a dura prova i piedi infreddoliti dentro legnosi zoccoli che ad ogni passo rischiavano di far scivolare a terra i loro piccoli proprietari. I quali, comunque, avevano imparato presto la severa legge del dovere, e tranne i forzati giorni di assenza dovuti agli immancabili malanni di stagione, frequentarono assiduamente le lezioni scolastiche mattutine e quasi sempre le pomeridiane. Del resto il maestro Grosso, a nome di tutti i colleghi, aveva parlato chiaro ai genitori il giorno di chiusura per le vacanze natalizie: soltanto chi avesse avuto un buon profitto in tutti i bimestri e rigato dritto sarebbe stato promosso senza passare sotto le forche caudine degli esami finali, che, rimarcò severamente, sarebbero stati comunque molto impegnativi. I fannulloni e gli adepti di certe bande... che sapeva lui... o si mettevano in riga o avrebbero inesorabilmente ripetuto l'anno.

 "Venerdì 14 le prove scritte in lingua, sabato 15 le prove di matematica e lunedì 17 luglio gli orali", fu deciso dal corpo insegnanti. "Tutti gli alunni delle varie classi ammessi agli esami eseguiranno le prove di propria competenza nello stesso orario, dalle 8 e 30 alle 12 dei giorni su indicati, nella stessa aula, essendo per tutti, quale Commissione Esaminatrice, la medesima, formata dal proprio insegnante di classe e dagli altri maestri in incarico alla scuola. Ciò in considerazione del limitato numero complessivo degli stessi alunni ammessi. Presidente il maestro Grosso Giuseppe, nominato dal Regio Ispettore Scolastico". Letto, approvato e sottoscritto da tutto il corpo insegnanti in data 17 giugno, il verbale, in duplice copia, fu consegnato nello stesso pomeriggio dal maestro Grosso direttamente nelle mani del Sindaco, il quale, a sua volta, ne avrebbe fatta pervenire una alle Regie Autorità Scolastiche del Circondario. Il giorno dopo, domenica 18 giugno, era la festa patronale e togliersi di mente l'impiccio burocratico della compilazione di quel verbale avrebbe permesso ai maestri di partecipare, come autorità, alla processione della Madonna Nuova con più sollievo. Strana processione quella della Madonna delle Grazie, o Madonna Nuova, come tutti la chiamavano. Proprio negli anni in cui Don Felice considerava peccato il ballo a palchetto, i portatori della Madonna facevano ballare la statua lungo le strade al ritmo della banda musicale. E a proposito di Don Felice, bisogna dire che ancora una volta aveva già predisposto tutto con largo anticipo. Avrebbe così avuto l'intero pomeriggio del sabato a disposizione per confessare la masnada di piccoli bugiardi che, ancora freschi di catechismo, forse sarebbero riusciti a dire l'Atto di dolore senza tartagliare e incepparsi. Le donne le aveva confessate il venerdì, perché da sempre era impossibile smuovere di casa, alla vigilia, quella turba di cuoche che già dall'alba aveva da preparare il collo ripieno, il bagnetto e gli gnocchetti rotolati sulla gamba. Per gli uomini aveva affidato l'incarico a Padre Massimiliano, il frate passionista che ogni anno ritornava al paese dal convento di Castellazzo per salutare i parenti nella venerata occasione. Ma quei birbanti, no! Quei 38 scappatidicasa, dei quali solo otto avevano domandato l'insegnamento religioso a scuola, li voleva confessare direttamente lui! Voleva un po' vedere se anche davanti a Dio avevano il coraggio di negare il nome di chi gli aveva infilato tra i piedi quel ranocchio che, prigioniero sotto la lunga veste, continuò a saltargli in mezzo alle gambe per tutta la messa del 1° ottobre...

Ignari di quanto li aspettava, i più contenti della festa erano i bambini stessi. Specialmente quelli appena promossi, i quali avrebbero potuto sperare in qualche succoso lecca lecca che i parenti, mossi a generosità nel santo giorno, avrebbero pagato loro alle bancarelle del torrone. Se poi comunque fosse andata male, pazienza! A mandar giù l'acquolina in bocca senza mettere niente sotto i denti, c'erano abituati dalla nascita. Del resto nessuno di loro avrebbe sfidato gli scappellotti del Carleuo, nella sua qualità di guardia campestre, se la pancia fosse sempre stata piena... Ma il denaro per l'acquisto dei dolciumi non era certo un problema per gli adepti della banda del morione. Loro sapevano benissimo come venire... in possesso dei lecca lecca senza spendere soldi. Alla riunione segreta sotto la vigna granda il piano era stato studiato alla perfezione e ciascun componente sapeva benissimo il da farsi.

 Venerdì 14 luglio, alle ore otto e trenta che più precise non si sarebbe potuto nemmeno con un orologio svizzero, la grossa mano che afferrò la corta e nodosa corda della campanella a fianco del portoncino d'entrata, facendola squillare per un bel po', era sempre quella del Carleuo dir mornä, dipendente comunale per l'occasione in mansione bidello.

Era suonata l'ora della verità! Specialmente per Francesco di quarta, il quale non era certamente lì, quel 14 luglio, per ribadire l'importanza della Rivoluzione Francese o per dissertare sul perimetro del trapezio. Rimanere promosso significava entrare in possesso di quei requisiti indispensabili a far sì che la scalata al grosso cedro diventasse anche di sua esclusiva pertinenza per il prossimo intero anno. L'ombra nel cortile della scuola era fresca, ma il bianco del sole faceva presagire una giornata afosa. Così come gli scricchiolii delle scarpe del maestro Devecchi in corridoio facevano presagire che quella mattina i suoi perpetui viaggi tra le file dei banchi non avrebbero certamente permesso, ai più asini, nemmeno l'ipotesi di poter copiare dai meno somari...  

- Poliv ij socrogni - bisbigliò qualcuno dietro ad Andrea facendo il verso al Carleuo che aveva pronunciato la frase un secondo prima. Ma quel qualcuno non aveva fatto i conti con il fine udito del bidello, il quale lasciò che l'alunno gli sfilasse davanti per affibbiargli poi da dietro il proverbiale scappellotto, apostrofandolo con un perentorio: - Così impari a farmi schernia!

- Tutti nell'aula di terza - fu l'invito perentorio della maestra Borghetti.

 Soltanto chi ha dato gli esami nella stessa aula in cui ha passato l'intero anno scolastico a tirare flecciate di carta masticata nel collo delle bambine, può capire l'impressione che fanno quella fila di banchi e quella doppia predella con sopra due maestose cattedre il giorno in cui si è chiamati alla verità senza appello. A Giannino sembrava che tutto, in quella stanza, fosse enorme. Si sedette al suo posto come se fosse stata la prima volta. Osservava in faccia i compagni come se si trattasse di gente arrivata or ora da un paese sconosciuto. Lo sguardo di quei due occhioni neri che faticavano a stare nelle orbite, spaziava dal soffitto alle finestre ai muri, scoprendo dei particolari che non aveva notato in nove mesi di scuola. Le mani erano fredde e un senso di pelle d'oca gli pervadeva tutto il corpo. Non si ricordava più niente! Mai, come in quel momento, una scossa di terremoto che avesse fatto crollare il pavimento sarebbe stata la benvenuta. Qualcuno sorrideva per dimostrarsi superiore all'evento. In realtà stava peggio degli altri. I secondi erano ore e viceversa. Tutti avrebbero voluto finire alla svelta e nello stesso tempo non cominciare mai. Ognuno pensava a chi, quella mattina, aveva la fortuna di essere in qualsiasi parte del mondo, ma non lì, di fronte al maestro Grosso, che, inforcati gli occhiali, stava minuziosamente stilando il verbale d'esame. Il maestro Devecchi, accaldato, con i suoi, di occhiali, umidi sulla punta del naso, era pronto a passare in rassegna una per una le cartelle affinché durante le prove non fosse mai che qualcuno avesse la malaugurata idea di scopiazzare microscopici bigliettini...

Entrate in aula anche le maestre De Carolis e Luigina e sedutesi reciprocamente una a destra e una a sinistra del Presidente, la maestra Borghetti chiuse la porta. Il maestro Grosso estrasse dalla cartellina le buste gialle, tre per classe, per il sorteggio delle prove d'esame preparate il giorno prima dall'intera Commissione. Dentro ad esse era racchiuso il destino di ognuna di quelle crapoline, il cui cervello faticava a trovare spazi per astratti concetti che andavano sempre al di fuori dell'esperienza quotidiana dell'aia. Quale dunque sarebbe stata la busta in cui ciascuno di quei grembiulini avrebbe trovato le risposte giuste, rimestando in quello scarso fardello che con enorme fatica era riuscito a raccogliere in nove mesi, accatastato a fianco della barca delle meraviglie? Quelle meraviglie che un bambino di campagna vive ogni giorno a contatto della natura, seppure indurite dai quotidiani stenti, dai mille rimbrotti e dai mille sotterfugi per evitarne altrettanti.

Ma non c'era più tempo per osservare dalla finestra la lotta tra la gazza e il piccione che sul ramo del cedro se le suonavano a colpi di beccate per la conquista del territorio. La voce della maestra Luigina invitava i due alunni di prima ad estrarre la penna dall'astuccio di legno e a copiare, sul foglio firmato da tutti gli insegnanti, quanto stava scrivendo a larghe lettere sulla lavagna, per il loro esame di ammissione alla classe successiva.  

Intanto, la maestra De Carolis, estratta a caso una delle buste, stava leggendo a Matilde di seconda il titolo del tema, da svolgere prima in brutta, a lei assegnato: "Emilia ha ricevuto in premio un ventino. Che aveva fatto per meritarselo? E come ha pensato di spenderlo?"

Per la classe terza, trattandosi di esame di proscioglimento del corso elementare inferiore, si era pensato di dare  ai maschi il tema: "- È inutile che tu pianga, dovevi pensarci prima - disse serio il babbo" e il tema: "Leonarda aveva risparmiato qualche lira. Con quei soldi poté comprare un regalo per una bambina povera. Racconta."  alla Pina, unica femmina.   

A Francesco di quarta toccò il gravoso compito di mettere giù qualche riga in una lingua che potesse assomigliare il più possibile a quella italiana, nel componimento: "Prega lo zio perché venga ad aiutarti a compiere alcuni lavori campestri".

Ma la disperazione colpì soprattutto Andrea quando il maestro De Vecchi lo informò che a lui di quinta era toccato il tema: "Finiti gli esami, verrò a trovarti. Lettera". Cosa? Una lettera? Nella sua vita non era mai andato al di là dall'ingessare i muri con un lapidario "abaso la squola", e adesso doveva addirittura scrivere una lettera? E a chi?

La maestra Luigina approfittò del silenzio che regnava nell'aula per rivolgersi agli alunni di prima, che terminato di copiare alla lavagna ora stavano scrivendo sotto dettatura: "Sono gli ultimi giorni di scuola. Fa caldo, lo studio è faticoso. Per fortuna le vacanze sono vicine. Chi ha lavorato sarà promosso".

E meno male, pensò il Pino, che oltre ad aver imparato che di cognome si chiamava Artini e che il suo vero nome era Giuseppe, come il nonno e il nonno del nonno, ora conosceva a memoria già quasi la metà delle lettere dell'alfabeto e i numeri sino al venti, saltando però il 14 e il 19 che non se li ricordava mai. 

Intanto, anche Sergio lo zoppetto, il quale a scuola non andava certamente a gambe levate nemmeno in italiano, aveva anch'egli consegnato il suo tema, per cui la maestra Borghetti decise di passare, per la terza, dopo il sorteggio, al seguente saggio di dettatura: "Taluni non approvano il denaro se non dopo averlo sprecato; molti fanno il medesimo del tempo. Da giovani lasciano correre invano le ore e solo quando la vita sta per finire pensano di farne buon uso. Ma allora l'abito del non far nulla si è radicato e dopo tanto tempo ha più forza della volontà. Le ricchezze perdute si possono recuperare con l'industria, il sapere collo studio, la sanità con la temperanza e la medicina, ma il tempo perduto non si riacquista più. La parsimonia del tempo è il metodo migliore per averne d'avanzo".

A non averne più d'avanzo era, invece, il polso della Pina, che ormai si era indolenzito a tal punto che le dita non tenevano più in mano la penna rosa e nera, il cui pennino era ciò che ormai assomigliava più ad un amo che a un attrezzo per scrivere. Oggi non c'era ad aiutarla la sua amica Marisa, subito promossa a giugno, ma c'era la tasca del grembiulino che ieri sera la Marisa stessa le aveva portato personalmente in casa. Tutto lavato e stirato. Così Pina avrebbe fatto bella figura all'esame. Compreso il colletto inamidato al punto giusto da sembrare di vetro e la tasca, appunto, da dove la Pina aveva scovato una mentina che aveva tuffato, come un fulmine, sotto la lingua per farsi passare un poco la sete. Le voleva bene, la sua amica Marisa, e mentre si succhiava la caramellina a bocca chiusa per non farsi beccare dal maestro Devecchi, pensava a quando l'avrebbero assunta come lavapavimenti alla filanda del sig. Caponi. Con il primo salario, pensava mentre si massaggiava il polso per riposarlo, avrebbe comprato un sacchettino intero di mentine da regalare alla Marisa per ringraziarla di quel suo delicato pensiero. Fra poco sarebbe iniziata la prova di calligrafia, e lì, le maiuscole, dovevano essere perfette.

La calligrafia, sì, proprio quella in cui erano ora impegnati i due alunni di prima. La Commissione aveva deciso di fargliela sostenere subito, per lasciarli liberi prima delle 12. Così, dopo che la maestra Luigina ebbe finito di dettare, quasi sillabando: "Alba, Roma, Savona, Piacenza, Genova, Cesena, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10", Pino (che dalla finestra aveva visto la sorellina Luisa che lo stava aspettando) e Matteo Campo consegnarono il foglio e rimessi nell'astuccio penna e gomma, salutarono con molta riverenza la Commissione, la quale diede loro appuntamento per il giorno dopo alla prova di matematica.

Appena Matilde rientrò dai servizi, la maestra De Carolis le consegnò i fogli per il dettato e la calligrafia. "Un altro anno di scuola è terminato. Fanciulla oggi devi dar prova di quanto hai imparato. Da brava mettiti con attenzione a fare un dettatino senza errori e una bella composizione. Così meriterai la promozione alla terza classe", recitava il dettato dell'insegnante, al quale seguì subito dopo la prova di bella scrittura: "Roma, Genova, Milano, Novara, Udine, Salerno. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10". Roma... Genova... Per Matilde quelle erano sicuramente regioni africane. La conosceva bene, lei, l'Africa. Suo nonno ci mandava tutti quelli con i quali bisticciava la domenica alle scommesse delle bocce. E se non fosse stata così piccola, ci sarebbe andata ad abitare anche lei in Africa, perché lì i bambini mancini scrivono con la sinistra... Ma adesso che anch'ella era uscita da quella scura aula e il sole le scaldava le braccia scoperte, i prati intorno che l'accompagnavano alla cascina erano più belli dell'Africa. Per cui decise che ci avrebbe ripensato...

Mentre Matilde rinunciava al suo viaggio all'estero... la Commissione decise di liberare anche gli alunni di terza dopo un brevissimo saggio di calligrafia: "Viva Trento e Trieste".

Rimasero le ultime due classi, per le quali era stato deciso che il dettato sarebbe stato lo stesso: "Il piccolo paese nel quale tu vivi, fa parte di una grande nazione che è rispettata e temuta da tutto il mondo per il valore dei suoi abitanti e per la loro onestà. Pensa che ognuno per umile che sia, concorre a formare la fama del nostro paese, quindi agisci e opera in modo da non offendere la grandezza della tua patria".

Ormai le forze stavano per abbandonare Francesco e soprattutto Andrea, l'unico di quinta a dover sopportare quella tortura. Zante Teresio e Pietro sicót, i due pluriripetenti, erano stati promossi, insieme ai migliori, agli esami di giugno. Ci si era messo di mezzo anche il consigliere comunale Ariondi, fittavolo del quasi zio di Zante... Non che il maestro Grosso si fosse lasciato intimorire o peggio ancora corrompere dal consigliere Ariondi, ma in effetti, seppure i due ragazzi avessero dovuto ripetere la quinta a vita, anch'egli capiva benissimo che di quelle quattro mani che ormai erano grosse al punto giusto da stringere il manico del forcone, ne aveva più bisogno la campagna che la grammatica. Così i due, in pieno periodo di mietitura del grano, potevano quel giorno aiutare le rispettive famiglie ad ammucchiare covoni a formar bore in attesa della trebbia.

Ma prima che i due esaminandi rimasti fossero liberi di sfogarsi a dare calci alle porte mentre ritornavano a casa, il regolamento prevedeva anche per loro la prova di calligrafia, che, dettata dalla voce baritonale del maestro Grosso, così diceva: "Ai giorni nostri l'istruzione è necessaria: l'operaio istruito può formarsi un'ottima posizione, mentre l'ignorante rimane sempre alla coda degli altri; per questo si obbligano i genitori a mandare a scuola i propri figliuoli.".

 Prima di aprire la porta agli insegnanti, che alle otto in punto si trovarono, tutti e cinque, davanti il portoncino della scuola, Carleuo aveva già spalancato le finestre del corridoio e dell'aula, soprattutto per far andar via il fumo del toscano. Fumava perché era contento, quella mattina, Carlo Ferreri detto Carleuo. Era sabato e sua moglie Mariuccia si sarebbe fatta la permanente in casa con i bigodini, e alla sera l'avrebbe portata, tutta pettinata, a mangiare il gelato al Dopolavoro. E gli altri l'avrebbero guardato con invidia, perché la Mariuccia, quando era pettinata, non aveva certo paura di quelle quattro smorfiosette del paese...

 Alle otto e trenta ormai gli alunni conoscevano la strada e siccome i quattro di terza furono i primi a mettersi al giusto posto, furono premiati. La maestra Borghetti consegnò loro il foglio a quadretti e iniziò a dettare il problema. "Una stanza lunga m 6,50, larga m 4,80 deve essere pavimentata con mattonelle esagonali di m 0,16 di lato e m 0,138 di apotema. Quanto misura il pavimento? Quante mattonelle occorreranno?". Questa volta i colpi di tosse di Giacomino non erano dovuti al mal di polmoni. Quella mattina più che altro soffriva di mal di geometria. Quanti lati aveva l'esagono? E l'apotema era uguale al raggio per due o a metà perimetro? I colpi diventarono così violenti che la Commissione, nonostante fosse proibito dal regolamento, lo lasciò uscire dall'aula, naturalmente sotto la vigilanza degli occhiali sulla punta del naso del maestro Devecchi, che lo guardava da dietro scrollando il capo. Ma non erano i polmoni, questa volta! Del resto affinché i miracoli si avverino, bisogna crederci. E lui, a quel fiaschetto di acqua del pozzo di Mosè che gli aveva regalato il bidello, aveva creduto così tanto che il dottore, dal quale era andato di sera, di nascosto, a farsi visitare, disse che sarebbe stata ancora lunga ma che ci sarebbe stata la possibilità di un miglioramento.

Intanto il problema di quinta, dettato dal maestro Grosso, recitava: "Un negoziante comperò q 86 di frumento a £ 60.80 il q e q 68 a £ 59 il q; li mescolò e vendette il miscuglio a £ 62.5 il q. Quanto spese nella compera e quanto guadagnò in tutto?".

Appena Andrea abbassò lo sguardo sul foglio per cercare di dimenticare l'estate inoltrata e concentrarsi su quel negoziante che invece di fare tutte quelle manovre avrebbe potuto chiudere per ferie... il maestro Devecchi, ritornato al posto Giacomino, dettò a Francesco il problema di "un contadino che vangò un campo di forma trapezoidale avente la base maggiore di m 128, minore di m 120 e l'altezza di m 80. Se guadagnò £ 190, quanto gli venne pagata la vangatura di ogni ara?"

Per i bambini di prima e seconda la prova prevedeva alcune semplici operazioni e due numerazioni, una di andata e una di ritorno allo zero.

 All'uscita Berto sorrise a Giacomino, lo resse come un fuscello prendendolo sotto le ascelle e lo sedette sulla bicicletta nell'identica posizione in cui tutti i giorni, tranne quelli con la neve per terra, trasportava dalla cascina a scuola e viceversa quel sacchettino di ossa che in dieci mesi non era aumentato di un solo etto, ma che era meglio non portare più dal dottore, perché altrimenti da grande non si sarebbe sposato. Il maiale aveva fatto la fine per la quale era stato allevato e sino alla fiera del prossimo autunno il padrone non ne avrebbe comprato un altro. Così Giacomino poteva accudire al pollame senza reggere, per ancora qualche mese, il pesante boiolo. Poi sarebbe arrivato il freddo, ma questo non disperava più di tanto Berto. Il maestro Grosso gli aveva consegnato la licenza di quinta elementare con le sue stesse mani e il padrone, per premio, gli aveva regalato la bicicletta. Ora che era sua, poteva adattare davanti al manubrio quel vecchio parabrezza da lambretta che le acque del fiume avevano depositato sull'ansa verso la diga vecchia. Così Giacomino non avrebbe più preso aria a quei polmoni che ad ogni respiro fischiavano come il marino. Almeno finché quei due polmoncini avessero continuato a fischiare...

 Il lunedì dopo fu tempo di orali, ma la nostra storia finisce qui. Ogni alunno e ogni alunna di quella piccola scuola ricevette, alla fine di quell'anno scolastico, l'inappellabile ma quanto mai corretto e coscienzioso giudizio della Commissione, che consegnò il verbale di tutte le operazioni in duplice copia al sindaco, il quale, a sua volta, ne recapitò una alle Regie Autorità Scolastiche del Circondario, così come la ruota della burocrazia voleva a quei tempi. Tempi duri, quei tempi, dove la ruota della vita girava in mezzo alle sempiterne fatiche della campagna, alle lune sul calendario, ai giorni della merla, all'undici di novembre. Dove le storielle piccanti dei saltimbanchi in piazza si mescolavano ai tristi rosari delle morti improvvise perché il medico non si doveva chiamare...

 Abbiamo ritrovato molti anni dopo alcuni di quegli ex alunni della piccola scuola. Ormai uomini e donne, con attaccati al fianco una ciurma di bambini. Erano tutti lì, sull'alto della chiesa, dove Don Rino, che aveva sostituito Don Felice alla sua scomparsa, stava dando gli ultimi ritocchi. Alle sedici in punto sarebbe partita la processione della Madonna Nuova. Non abbiamo fatto domande. Soltanto dal Carleuo dir mornä, ormai in pensione, ma sempre sottobraccio alla sua Mariuccia, abbiamo saputo per caso che una di quelle bambine si era fatta suora.

diogene